“PERCHE’ HO FIRMATO CONTRO IL MES”

“PERCHE’ HO FIRMATO CONTRO IL MES”

Il MES (meccanismo europeo di stabilità) nonostante nasca come strumento finanziario per la stabilizzazione finanziaria europea, rischia di rivelarsi un’arma a doppio taglio, soprattutto per l’Italia. Il cospicuo fondo, che possiede una dotazione di 700 miliardi di euro, vuole essere un “paracadute” in caso di crisi finanziarie, di fatto creando una forma di condivisione dei rischi che va a vantaggio/svantaggio di tutti i Paesi, intervenendo e finanziando operazioni di ristrutturazione qualora non fosse sufficiente il fondo di risoluzione unico europeo da 60 miliardi. Il MES, nato nel 2012 dopo le crisi di Spagna, Grecia, Irlanda, Portogallo e Cipro, è attualmente in fase di modifica in sede Europea con una riforma che dovrebbe entrare in vigore il 1° gennaio 2024 con lo scopo ddi introdurre nuove regole e completare l’Unione bancaria. Il nuovo meccanismo, in relazione alla condizione finanziaria dei paesi UE è tutt’altro che omogeneo e divide, non in apparenza ma nei fatti, gli stati in categorie di serie A e di serie B. Per poter accedere al MES ci sono alcune condizioni stringenti, in particolare occorre non trovarsi in procedura di infrazione, essere da almeno un biennio sotto la soglia del 3 per cento del deficit oltre che possedere un debito pubblico sotto il 60 per cento. Se i paesi con “i conti in ordine” hanno poco o nulla da temere, gli altri Stati, 10 su 19 tra cui l’Italia, il possibile accesso al Fondo passa non solo per la condivisione di un memorandum d’intesa, ma anche attraverso un piano di interventi, di “austerity” e di riforme che, in passato, ha salvaguardato i conti, ma ha messo in ginocchio l’economia e lo stato sociale del Paese (vd. Grecia). A queste condizioni appare chiara la difficoltà per l’Italia di accedervi se non a fronte di una una pesante “ristrutturazione del debito”, con tutto ciò che esso implica. Una ristrutturazione di quel debito inciderebbe in modo pesantissimo sui bilanci delle banche, e di riflesso sull’economia reale, che stanno sostenendo il debito pubblico nazionale. Le parole pronunciate dal Governatore di Bankitalia Ignazio Visco il 15 novembre, smorzate nei toni in un successivo momento, ne sono una riprova : “I piccoli e incerti benefici di una ristrutturazione del debito devono essere ponderati rispetto all’enorme rischio che il mero annuncio di una sua introduzione possa innescare una spirale perversa di aspettative di default”. Persino un economista certamente non iscrivibile nella platea degli anti-europeisti come Carlo Cottarelli, sulle pagine de “La Stampa”, si interroga su questo: “Se gli investitori sanno che il fondo salva stati, quello che può intervenire in caso di problemi, chiederà probabilmente una ristrutturazione del nostro debito come condizione per un prestito, come pensate che si comportino? Smetterebbero di comprare titoli di stato al primo segnale di tensione”. La riforma delle «clausole di azione collettiva» (Cacs) negli eventuali casi di ristrutturazione del debito sovrano di uno Stato membro prevede una cancellazione del meccanismo di doppia votazione da parte dei creditori (e quindi la necessità di avere una maggioranza per ogni emissione), con il timore che questo possa rendere più facile da parte dei creditori la possibilità di “speculare sul debito”, chiedendo nelle aste un rendimento più alto. Questo non sembra rappresentare in alcun modo un meccanismo a tutela dei piccoli risparmiatori e delle banche nazionali, che in queste settimane hanno fatto sentire la propria perplessità, che sarebbero costrette a possedere una minore quantità di titoli di stato per il rischio di perdite di capitale. Oltre a questo ci sono ulteriori criticità che emergono e che rischiano di penalizzare il nostro Paese. Il “backstop” per il Fondo di Risoluzione Unico, un fondo finanziato dalle banche europee che serve ad aiutare istituti finanziari in difficoltà, pone molte perplessità e timori dovuti alle condizioni in cui attualmente versa il sistema bancario tedesco che, probabilmente, dovrà essere ristrutturato. Quello che dovrebbe nascere per offrire garanzie e tutele sui rischi collettivi potrebbe quindi tradursi in una condivisione delle perdite bancarie del singolo stato. Per il nostro Paese, che in questi ultimi ha pesantemente subito una complessiva ( e dolorosa) ristrutturazione del sistema bancario rischia di essere un vero boomerang. La riforma del MES, quindi, non pone solamente un rischio economico e finanziario per il nostro Paese, già in forte difficoltà per ragioni di fragilità politica, ma rischia soprattutto di creare un’ulteriore frattura ed allontanamento da una prospettiva di un’Europa costruita attraverso una visione comune a tutela dello stato sociale e dell’economia reale dei Paese membri e non sulla rigidità di regole e protocolli a vantaggio di pochi.